Luglio 1989 Fossano provincia di Cuneo, fino a Settembre e da Ottobre a Gorizia.
Prima Allievo Carabiniere e poi Carabiniere Ausiliario al XIII Battaglione Friuli Venezia Giulia, 2ª Brigata Mobile, che come dice Wikipedia è un Battaglione: “impiegato anche in compiti di mantenimento dell’ordine pubblico, prestando servizio in caso di eventi di rilevanza nazionale come manifestazioni di piazza o incontri calcistici, criticità nazionali”.
Una cosa che quando la racconto e mostro a mio figlio non ci crede che il papà fosse uno di quelli che si ritrovava in mezzo ai fumogeni e alle piogge di sanpietrini.
Già per lui e i suoi amici è impossibile credere che per un anno te ne uscivi di casa e andavi a fare il soldato e a servire la Patria.
Beh, chi ha la mia età lo sa, c’era del buono e del cattivo nella naja.
Ma non è questo.
Stasera mentre rientravo a casa mi è venuto in mente un fatto curioso che mi accadde in quel periodo ed ha a che fare con il lucido da scarpe nero, per tenere impeccabili gli aggressivi anfibi e le orribili scarpe, che chiamavano “formali”, perché si indossavano con la divisa classica quando eri in servizio.
Era una maledizione ed un lavoro che odiavo.
Un rito che veniva tenuto in somma considerazione da marescialli e tenenti, soprattutto alla Scuola Allievi e nei primi mesi di Battaglione.
Lustrare con spazzola e cera e rifinire con lo straccio e il grasso di foca, ogni sera e ogni mattina anfibi e scarpe, mi sembrava una inutile perdita di tempo.
Dovevano essere immacolati, scintillanti, impermeabili, senza strisci, né graffi, né parti consumate, il che costringeva a prestare attenzione alle cuciture, alle suole, ai lacci e agli occhielli.
Un lavoro che ora definirei una pratica zen.
Complice il mio DNA artigiano ed operaio avevo adocchiato al supermercato una specie di lucido nero, liquido, contenuto in un tubo che finiva con una spugna.
Premendolo sulla pelle delle scarpe spargeva il fluido e con la spugna lo potevi passare velocemente.
In termini di tempo spugna e liquido battevano lucido, spazzola, grasso e straccio, un minuto contro dieci.
In termini di risultato estetico le calzature luccicavano dieci volte di più.
In termini di cura e di buona conservazione però no.
Si capiva che il fluido nero era una specie di vernice sintetica che poi lasciava la pelle secca e tendeva a farla screpolare.
Il trattamento “classico” era invece una garanzia per la durata delle scarpe.
“Non capisci un cazzo Zanolli”, mi rispose un Ufficiale di Picchetto, quella volta che nei tre mesi di Scuola Allievi mi cancellò la libera uscita perché evidentemente le mie scarpe non rispondevano ai requisiti perché troppo brillanti e non frutto della rituale procedura di pulizia comandata
“Non è questione di come sembrano, ma del lavoro che ci metti”.
Dentro di me lo mandai in posti troppo lontani per citarli qui, arrabbiato e fondamentalmente impermeabile alla lezione.
Ma l’avrei rivalutata molto dopo.
Me ne sono reso conto stasera di cosa voleva dirmi.
Non è sempre questione solo del risultato visibile.
È questione di come si ottiene e delle ricadute di come si è ottenuto quel risultato.
E questo si applica a tutto ciò che non sia solo una gag di marketing.
Allevare un bambino.
Mantenere una relazione.
Gestire delle persone.
Portare il risultato aziendale.
Fare parte di un team.
Aiutare il prossimo.
Mantenersi in salute.
Non è solo estetica è anche contenuto ciò che serve.
In un’epoca di social e pagine che assomigliano a quel tubo con la spugna voglio essere quello del lucido, della cera, della spazzola e dello straccio.
E dell’olio di gomito.
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