È difficile per tutti seguire ed orientarsi nel mare delle opinioni e dichiarazioni relative all’Unione Europea.
Troppe differenze, troppe polemiche, si fa fatica anche solo a chiedersi come stanno realmente le cose. Partendo magari dalla semplice domanda: se non ci fosse l’UE, pur con tutti i limiti che ben conosciamo, come saremmo oggi? Come singoli Stati sovrani, tutti divisi, tutti distinti e distanti.
Nel frattempo, in mezzo a questo guazzabuglio, ci sono altri Stati che attendono di entrare nell’UE, e altri ancora che, già dentro, pur criticando, si guardano bene dal seguire la Brexit inglese, avvenuta cinque anni fa.
Forse l’adesione, soprattutto dei Paesi dell’Est, è avvenuta troppo in fretta, mentre, come già per l’Euro, sarebbe stata cosa migliore seguire percorsi diversi, a più velocità.
Senza dimenticare il vero tappo alla bottiglia, cioè l’unanimità del voto quando l’UE deve deliberare una decisione, e non a maggioranza.
Così la somma delle difficoltà ha prodotto una incapacità di costruire assieme un pensiero che vada oltre i singoli destini nazionali.
Soprattutto dopo l’introduzione dell’euro nel 2002. Decisione presa nel 1999, voluta da 12 dei 15 allora Stati dell’Unione. Oggi sono 20 su 27 i Pesi che condividono la moneta unica.
Da allora non si è generato più pensiero comune, aprendo le porte alla crescente burocratizzazione. E al conflitto permanente tra Consiglio europeo (che rappresenta i capi di governo dei singoli Stati) e Commissione europea (votata dal Parlamento europeo).
Una narrazione in negativo ha iniziato così a prendere il sopravvento, succube della duplice volontà, americana e russa, di impedire la nascita degli Stati Uniti d’Europa. Gigante economico ma nano politico dunque.
I singoli Stati europei possono immaginarsi una salvezza fuori dall’ombrello dell’UE? Si possono salvare da soli vedendo la nuova Yalta tripolare che si sta delineando?
Tutti, credo, stiamo assistendo alle nuove forme di colonialismo in varie parti del mondo, con i singoli Stati europei non più protagonisti, ma solo muti strumenti delle altrui effervescenze.
Senza una prospettiva comune, che sia capace di dare indicazioni e prospettive, è inevitabile che prima o poi si diventi strumento delle altrui logiche di potenza, sotto vecchie o nuove “sfere di influenza” o moderne forme di “spazio vitale”. Con l’unica prospettiva, magari nascosta sotto qualche ombrello nazionalista, di diventare silenziosi ed obbedienti esecutori di strategie altrui.
Gli Stati Uniti divennero uno Stato federale nel 1776. Un grande gesto politico, immaginare allora un destino comune capace di andare oltre gli interessi dei singoli Stati! Una grande lezione della storia.
Da noi, nonostante l’esperienza di 80 anni di pace, oggi prevale invece il gioco del buttare via con l’acqua sporca anche il bambino, cioè quel sogno che i padri fondatori proposero a suggello della fine di quella logica di guerra in casa nostra che ha dominato il mondo negli ultimi 500 anni. Un sogno che comprendeva l’esercito comune, una politica estera ed una sola politica fiscale, con in prospettiva gli eurobond.
Oggi l’UE è anzitutto “mercato comune”, per cui è giocoforza che sui dazi debba esprimersi l’UE e non ogni singolo Stato aderente.
Credo che la cosa migliore, per ritornare a sognare un futuro possibile, sia iniziare un nuovo percorso a cerchi concentrici di realizzazione dell’Europa politica.
Come già avvenne con l’euro.
Secondo una logica federale, rispettosa delle specificità, ma capace anche di andare oltre.
E quest’oltre è la rinuncia ad un ulteriore parte di sovranità, a favore di un orizzonte comune.
E qui sta il punto.
Parlo della legge, logica ed esistenziale, che è alla base del nostro vissuto sociale: il tutto è sempre più della somma delle parti.
Lo vediamo e sperimentiamo in famiglia, nei gruppi sociali, nel mondo del lavoro, nella cultura istituzionale.
In altre parole, non è vero che uno più uno faccia sempre e solo due. Fa di più. E il di più dipende da noi.
La vita cioè è più degli algoritmi matematici.
E il di più dice la centralità sempre delle persone, dice quel “principio di persona” e quel “metodo della libertà” che sono il cuore della nostra modernità democratica.
Persona e libertà che purtroppo oggi riconosciamo nel loro valore positivo solo quando vengono negati. Uno strano paradosso.
Sono come l’aria: ce ne accorgiamo solo quando ci mancano.
Iniziamo dunque a costruire una narrazione in positivo degli aspetti esistenziali del nostro vivere sociale ed istituzionale.
Altro modo per dire quella cultura di pace che non teme il confronto e la fatica del dialogo. Un dialogo anche con chi, machiavellicamente, pensa che tutto possa o debba essere ridotto alla sola politica della forza, compresa la forza mercantile del mero tornaconto immediato.
In un mondo comunque interconnesso gli spazi ci sono.
Ci vuole pazienza, ci vuole tenacia, ci vuole lungimiranza. Oltre i piccoli cabotaggi.