Mal di stagione, si chiamano ancora oggi.
Così, non bisogna troppo lamentarsi, penso tra me e me, se un po’ di bronchite da qualche giorno non mi lascia in pace.
Allora provo a ricorrere al medico di base, come si fa di solito.
Chiedo cioè una visita, ma l’appuntamento viene concesso non prima di una ventina di giorni. Vista la situazione, provo ad affacciarmi al suo studio, ma vedo una ressa che mi suggerisce di rinunciare.
Meglio lasciare spazio a chi ne ha più bisogno, provo a giustificare il mio scetticismo.
Così torno a casa, ma prima faccio un salto in farmacia per chiedere qualche rimedio.
Sopporto e confido nel tempo che passa.
Intanto leggo che i pronto soccorsi sono intasati. E che il governo sta decidendo se rendere i medici di base dei veri dipendenti pubblici o lasciarsi liberi professionisti.
La vita della sanità pubblica, mi chiedo nel contempo, è così dappertutto nel nostro Paese?
È proprio vero che non ê più in grado di soddisfare la domanda di salute?
Basterebbe chiedere agli utenti, prima di tutto, ma anche ai medici, agli infermieri, a chi ha responsabilità di sistema, per capire come stanno realmente le cose.
Perché la sanità pubblica costa. E i soldi pubblici vanno spesi bene.
Tanto per capirci, lo Stato mette oggi a disposizione 136 miliardi. Ma vediamo tutti che non bastano.
Perché le famiglie ne devono aggiungere di tasca propria altri 46.
Ma se sommiamo anche le spese per la non autosufficienza, arriviamo a 60 miliardi l’anno che le famiglie spendono per la propria salute.
Il rimedio veloce? Affidarsi alla sanità privata. E chi non se lo può permettere?
C’è da alcuni anni in atto, in poche parole, una forma di privatizzazione della nostra sanità pubblica, a forma universalistica, come fu pensata da una nostra conterranea, cioè da Tina Anselmi.
Arriveremo ad una totale privatizzazione, legata solo alla copertura assicurativa come in altri Paesi? Per cui chi non avrà la possibilità di farsi una assicurazione sarà costretto a non curarsi?
È giusto che se ne parli. Perché l’impressione è che questa privatizzazione sia già in atto da alcuni anni, anche se i cittadini non sono stati chiamati a decidere su questa scelta. Un paradosso.
Pensiamo poi alle iniquità territoriali e fra gruppi sociali in termini di qualità delle stesse cure.
Nel nostro servizio pubblico, una cosa che va detta, si erogano a volte prestazioni non sempre appropriate.
Ma la cosa che sta colpendo è la crescita dei bisogni inespressi, con una gestione dei costi difficilmente controllabile.
In un momento di discussione sulla autonomia differenziata tra le regioni, sapendo che la sanità è già regionalizzata, ci sono opinioni di esperti di politica sanitaria che sottolineano invece che la governance sistemica è troppo frammentata, nel senso che mancano incentivi e capacità di management, soprattutto a livello intermedio.
Ad intervenire su questo aspetto fondamentale c’è ora l’istituto di ricerca “Cergas” della Bocconi di Milano, composto da una cinquantina di ricercatori.
Il loro compito è comprendere il modo in cui la società pensa alla salute e all'assistenza sanitaria.
Questo istituto di ricerca, di base multidisciplinare, ha una attività che si divide in 5 aree di ricerca: management sanitario, economia sanitaria e valutazione delle tecnologie sanitarie, politica sanitaria, servizi di assistenza sociale e management delle imprese sociali e non profit.
Questo stesso istituto propone una lista di quindici principi per orientare una incisiva riorganizzazione del Servizio Sanitario Nazionale.
Per prima cosa, propone di difendere i valori di base (universalismo, equità, centralità della persona, efficienza, efficacia), per poi arrivare ai principi specifici che riguardano l’erogazione e l’organizzazione dei servizi (globalità, sanità d’iniziativa, governo delle interdipendenze, semplificazione, innovazione, autonomia manageriale).
Sul finanziamento, il “Cergas” raccomanda di «promettere ciò che si può mantenere». Oggi ci sono cioè troppe promesse astratte, disattese nella pratica. Pensiamo al divario fra disponibilità e accessibilità delle prestazioni e la triste realtà delle liste d’attesa o dei «viaggi della salute» tra Sud e Nord.